Il carattere dell’America
Tipografia, ideologia e potere nella comunicazione politica statunitense.
Calibri vs Times New Roman: estetica o ideologia?
Negli ultimi giorni, una decisione apparentemente tecnica ha riacceso un dibattito culturale negli Stati Uniti: l’amministrazione federale ha annunciato la progressiva sostituzione del Calibri con il Times New Roman nei documenti ufficiali.
Una scelta subito letta – e contestata – come un segnale simbolico. Possibile che la voglia di cancellare e ripudiare il recente passato politico porti a prendersela anche con i caratteri con cui si scrivono i testi? Commentatori, accademici e media statunitensi hanno trasformato il cambio di font in una questione identitaria: che voce deve avere lo Stato? Una voce solenne, erede della tradizione burocratica novecentesca, o una più contemporanea, accessibile, quotidiana? Non è la prima volta che la tipografia diventa terreno di scontro politico in America. Anzi, è il segnale più recente di una lunga storia in cui i caratteri tipografici hanno contribuito a definire potere, consenso e appartenenza culturale.
Calibri nasce come font pensato per lo schermo: pulito, leggibile, contemporaneo. È diventato uno standard globale grazie a Microsoft Office (font di default nei template base del pacchetto), e proprio per questo è entrato nella comunicazione quotidiana, informale, diffusa.
È qui che si innesta la critica politica: Calibri viene associato a un linguaggio “troppo comune”, poco solenne, inadatto – secondo alcuni – a rappresentare l’autorità dello Stato. Times New Roman, al contrario, richiama un immaginario accademico, burocratico, novecentesco.
È il font della carta, dei documenti ufficiali, del potere che si esprime dall’alto.
La questione non è quale font sia “giusto”.
La questione è che la tipografia viene letta come segnale ideologico: modernità contro tradizione, accessibilità contro gerarchia, presente contro passato.
Quando un carattere tipografico diventa oggetto di scontro politico, significa che il linguaggio visivo è ormai parte integrante del dibattito pubblico.
Obama e Gotham: quando il font diventa consenso
Il caso più emblematico resta la campagna presidenziale di Barack Obama.
Nel 2008, l’adozione di Gotham (pubblicato da Hoefler & Co. nel 2002) segnò un punto di svolta. Gotham è un sans serif geometrico ispirato alla segnaletica urbana americana: forte, leggibile, contemporaneo, ma profondamente radicato nell’immaginario visivo degli Stati Uniti.
Quel font comunicava:
cambiamento senza rottura
modernità senza élitismo
autorevolezza senza distanza
Gotham non fu un semplice supporto grafico, ma parte integrante del messaggio politico. Contribuì a rendere visibile l’idea di un’America nuova, inclusiva, riconoscibile. Da quel momento in poi, la tipografia entrò stabilmente nel vocabolario strategico della comunicazione politica americana.
Hillary Clinton e il limite del branding
Otto anni dopo, la campagna di Hillary Clinton tentò un’operazione altrettanto consapevole dal punto di vista del design. Il logo con la “H” e la freccia, progettato da Michael Bierut (Pentagram), era formalmente solido, flessibile, tecnicamente impeccabile.
Eppure fu duramente criticato.
Uno degli elementi più discussi fu proprio la freccia che punta verso destra, letta da molti come simbolicamente ambigua o addirittura contraddittoria rispetto al posizionamento politico della candidata. Al di là delle interpretazioni, il caso mise in luce un limite chiave: un’identità visiva può essere corretta, ma non necessariamente empatica.
La tipografia e il branding non riescono a compensare una percezione di distanza. Anzi, in certi casi finiscono per amplificarla. Il design, quando appare troppo costruito o controllato, rischia di essere percepito come artificiale. In questi casi, più che rafforzare il messaggio politico, l’identità visiva finisce per rivelarne le fragilità.
New York e Zohran Mamdani: il carattere della città
Più recente e meno noto al grande pubblico, ma estremamente significativo, è il caso della comunicazione istituzionale del sindaco di New York Zohran Mamdani.
Qui la scelta tipografica si ispira esplicitamente alla hand-painted street signage newyorkese: lettering irregolare, diretto, legato a bodegas, negozi di quartiere, segnaletica urbana non ufficiale. È un’estetica che parla di prossimità, di strada, di città vissuta.
È una scelta profondamente politica.
Non cerca neutralità né solennità, ma radicamento culturale. La tipografia diventa voce urbana, riconoscibile, popolare nel senso più autentico del termine. Un modo per dire che l’istituzione non osserva la città dall’alto, ma ne adotta il linguaggio.
Perché tutto questo conta (anche oltre la politica).
Questi casi mostrano come la tipografia contribuisca a costruire fiducia – o diffidenza. Che si tratti di una campagna elettorale, di un’amministrazione pubblica o di un’azienda, il carattere tipografico influisce su:
tono della comunicazione
percezione di autorevolezza
distanza o prossimità con il pubblico
Ignorare questi aspetti significa lasciare spazio all’incoerenza. In un contesto di comunicazione continua, anche il font diventa una presa di posizione.
Conclusione: il potere di come si scrive
Il dibattito su Calibri non riguarda davvero Calibri. Riguarda chi decide come deve parlare lo Stato, e con quale voce.
Negli Stati Uniti la tipografia è diventata un campo di tensione culturale: tra passato e futuro, tra istituzione e cittadinanza, tra autorità e inclusione. Fingere che sia solo una questione di stile significa non coglierne la portata politica.
Per chi si occupa di comunicazione – pubblica o aziendale – la lezione è chiara: scegliere un font significa scegliere un punto di vista.
E oggi, più che mai, anche il modo in cui scriviamo è parte del messaggio che vogliamo trasmettere.